On trouve

giovedì 11 febbraio 2016

All'ombra dei cipressi

Alla Piramide, Roma



Partimmo per il viaggio in Spagna su sollecitazione di Amelia Rosselli, degli amici americani le avevano offerto le chiavi della loro casa a Capileira, in Andalusia ma era ormai luglio e non aveva trovato nessuno che la accompagnasse. Fu Orazio Converso, editore della collana di video-poesia “Videor”, a chiedere ad Ezio Bocci, grafico e fotografo e a quel tempo collaboratore di Converso, a chiedergli se era disponibile a condividere quella vacanza con Amelia; lei ne aveva davvero bisogno perché le pesava passare quellacalda estate, agosto in particolare, in una Roma arsa dalla solitudine e dall’afa.Ezio Bocci coinvolse me ed Angelo Tobia, entrambi innammorati della scrittura, a fare insieme ad Amelia quel viaggio e, detto fatto, decidemmo per il sì, Amelia fu entusiasta di partire con un piccolo gruppo e ci incontrammo subito per organizzarci, conoscevamo il valore di Amelia Rosselli come poetessa, l’avevamoascoltata nei reading e avevamo letto i suoi libri, inoltre vi era una videocassetta su Amelia che Converso aveva realizzato in quel periodo: una lunga intervista a Villa Borghese dove, seduta sotto un albero ed appoggiata ad esso, con un bianco impermeabile alla francese ed un elegante orologino al polso Amelia, fumando le sue lunghe sigarette, spiegava con maestria tecnica e concentrazione poetica, il significato dell’arte, compiendo meticolose osservazioni sul suo modo di intendere e fare scrittura.Ci incontrammo una sera di fine luglio per conoscerci dandoci appuntamento in un tranquillo ed elegante ristorante vicino a via del Corallo, nei pressi della sua abitazione e Amelia venne in compagnia di una sua amica. Trascorremmo una piacevole serata fitta di intenti organizzativi, fecemmo molto tardi mangiando,fumando e parlando.Partimmo l’8 Agosto alle otto di mattina, noi venivamo da Frascati ed eravamo partiti molto presto per essere puntuali sotto il portone di Amelia con la macchina di Ezio Bocci. Salimmo in casa per aiutarla a portare giù i bagagli, lei era già pronta, allegra e vispa.Fu incredibile: partita la macchia Amelia cominciò a parlare subito di letteratura, di Alberto Moravia e dei romanzi, in particolare de “Il Conformista”, opera che lei apprezzava più delle altre. Noi ascoltavamo con attenzione, rapiti dal suo linguaggio sobrio ma immaginifico, preciso, per niente svolazzante o retorico.Faceva molto caldo, era un agosto da 38 gradi, un caldo eccezionale, la macchina non aveva l’aria condizionata, la maggior parte delle macchine non l’aveva a quei tempi, il suo eloquio ci rendeva sopportabile l’andare, qualche parola si perdeva tra gli sbuffi d’aria che ci investivano da un finestrino aperto all’altro, Amelia sedeva davanti, vicino a Bocci che guidava e per farsi sentire si voltava con la testa spesso per farci arrivare la sua voce. Riuscimmo in breve tempo a districarci dalle vie del centro e a imboccare l’autostrada dove cominciarono a formarsi momenti di silenzio che si fecero sempre più lunghi mano a mano che il solesaliva, il caldo aumentava, fino a che ci percepimmo come un puntino incandescente abbandonato in un abitacolo di metallo senza alcuna destinazione. Decidemmo di fare la prima sosta. Servì anche a studiare per l’ennesima volta la cartina, fare i conti sulle ore ancora da fare, i rifornimenti della benzina, cose di questo genere.In macchina si fumava in libertà, Amelia accendeva molte delle sue sigarette sottili, credo le Capri e si soffermava spesso sul significato del fumare: le piaceva dire che ciò che più le piaceva era perdersi nel fumo che si perdeva nell’aria, come certi pensieri che iniziano per poi svanire e questo era un fenomeno che larilassava. Nessuno di noi, tantomeno lei, lega il fumo alla salute o lo collegava all’idea di danno, non accennò ai al fatto di smettere, Era come se una ardente giovinezza le ardesse nel cervello e il desiderio di vivere sopravanzasse ogni altra considerazione. D’altra parte, allora sessantenne, Amelia era una donna magra, leggera, longilinea, con la schiena sempre dritta e camminava speditamente senza segni di alcun affanno.Arrivammo a Genova in un lampo, o tale ci sembrò, poco dopo eravamo sulla Costa Azzurra, trafficatissima di bagnanti con cappelli di paglia, zoccoli di legno, musica e là facemmo la prima sosta che ci risvegliò da una sorta di ipnosi da alta velocità.Amelia mangiava molto volentieri e beveva numerosi caffè, diceva per tenersi sveglia e non la sentimmo mai dire di essere stanca. Rideva spesso, faceva battute ironiche, le piaceva mettere in luce i comportamenti umani “assurdi” ma non parlava mai dalla cattedra, cercava il confronto con noi, la condivisione e non si riusciva a darle torto facilmente, diceva cose vere. Non si accontentava della prima cosa che ti veniva in mente come risposta, scavava con altre domande per conoscere, sapere, andare oltre l’opinione spicciola, verso le idee che vi sottostavano, su faccende soprattutto di ordine quotidiano: cosa era meglio mangiare, che valore andava dato al vestire, quali erano i modi migliori per spendere soldi. Noi non avevamo alcun registratore, come molti amici ci avevamo invece sollecitato a fare, perché non ci parve bello che una signoracome Amelia, finalmente in vacanza e lontana dal suo lavoro, potesse sentirsi spiata o non a suo agio.Volevamo che Amelia potesse godere appieno e in totale libertà di un viaggio unico in quella stagione della sua vita. Ci confidò infatti che era stanca di passare le vacanze estive in quei paesetti del Lazio solitari e noiosi in compagnia di qualche amica insegnante, in pensioncine che non sollevavano in lei alcun entusiasmo ma che era meglio di niente. Quel viaggio in Spagna era per lei una straordinaria occasione di cambiamento, un’uscita dalle solite cose. Noi tre, fummo presto coinvolti dall’umanità della persona più che dal personaggio e, per quello che potevamo, cercavamo di renderla felice e basta.Avevamo invece con noi la macchia fotografica perché per Ezio Bocci era inconcepibile spostarsi senza.Amelia era molto contenta di essere fotografata, la divertiva e cercava in tutti i modi di essere creativa nel cercare pose originali e non usuali, di assumere atteggiamenti disinvolti e divertenti senza cadaere nel “bizzarro” una categoria che la faceva sorridere perché impenetrabile con l’intelligenza e quindi non riconducibile ad alcunché se non alla libera e consapevole scelta di esserlo da parte di un individuo: non restava che riderne. Amelia infatti adorava usare l’intelligenza, per lei era come una lima che usava sulla materia per rendere le cose più lisce, belle, comprensibili senza che restassero scorie di irrazionalità che potessero dar effetto a quei fenomeni “eccentrici”, altra categoria da cui prendeva le distanze. Amelia in questo era un classico. Era una donna dall’eleganza innata e naturale, cosa che le conferiva un che di aristocratico. Il suo portamento, flessuoso e non rigido, il suo abbigliamento, semplice ma non ordinario, la sua ricercatezza nello scegliere le parole, il cibo o il vino, tutto era ispirato però a una grande semplicità con il risultato che ti facevi un’idea su che cosa è lo “Stile”. Amelia aveva stile.La voce calda e profonda, con una erre moscia che la faceva sembrare una francese, senza accenti o inflessioni dialettali, incutevano soggezione ma percepivi al contempo che era una persona “democratica”, non so dire in quale senso del termine e per quanto strano possa apparire tale accostamento. Era di animo nobile senza essere altezzosa, volava quando parlava di poesia ma era attaccata alle cose semplici della vita, era “terrena” se pur immersa e attraversata da un celeste senza fondo.Non aveva paura di niente: ragni, scarafaggi, la notte, la fatica, l’imprevedibile, aveva una apertura mentale che la metteva in condizioni di vivere ogni momento della sua giornata con pienezza, forse il suo nemico vero era la “solitudine”.Amelia era conoscibile, trapassabile, aperta con fiducia verso gli altri, non fece niente, durante quella vacanza, per nascondersi, cammuffarsi. Preferiva conoscere e farsi conoscere bene, non aveva complessi o inibizioni, cose queste che negli altri, invece, trovava come origine della sofferenza in lei, come se incappasse in qualcosa che non aveva previsto, non capiva bene o forse non accettava che le persone dovessero trascinarsi dietro comportamenti nevrotici quindi inutili.Amelia era libera come un uccello e avvertiva negli altri il peso di non voler essere altrettanto liberi. Ciò costituiva per lei “prigione”, avvertiva nel meccanismo di difesa, diffuso nella personalità comune, una barriera che le rendeva difficile quella “comunione” di cui invece la sua anima aveva grande bisogno. Ma tali meccanismi psicologici Amelia capiva benissimo, anzi ne era maestra, e come interlocutore poteva diventare un osso duro tale era il suo acume intellettivo. on era affatto impreparata alla vita.
Capilleira era arroccata in alto e dall’alto l’occhio si perdeva tra valli e altopiani, non si scorgeva alcun altro paese nelle vicinanze. L’abitato era tutto colorato di bianco, piccoli edifici a piano terra, con orticelli e giardini, verande e terrazze con pigri gatti, pollai, molti uccelli. Nelle stradine poi si vedevano gli asini inerpicarsi con il padrone a fianco, carichi di cose! E la mattina all’alba si sentivano i galli cantare! Gli abitanti erano silenziosi e riservati, le donne gli uomini anziani vestiti per lo più di nero in abiti tradizionali, i bambini lindi e accurati, bene accuditi dagli adulti, si capiva a colpo d’occhio. I primi due giorni trascorsero così tranquillamente, nella conoscenza piacevole del luogo. Il terzo scoprimmo che era giorno di mercato e vi facemmo un giro per curiosare, Amelia acquistò un grande cappello di paglia perché il sole era forte.Ci sedemmo, noi quattro, a un caffè della piazzetta per una seconda colazione e altri caffè, per scambiarci le nostre impressioni reciproche. Quella volta Amelia manifestò un’inquietante attenzione per la gente, fatto strano perché aveva già rivelato invece non solo attrazione per le persone ma anche un rispetto degno dinota. Si era persuasa che qualcuno la stesse osservando troppo, forse per il cappello, diceva, e comimciò così, prima in sordina poi in salendo, ad interloquire con qualcuno o qualcosa che là non era presente, non visibile comunque, e alzando la voce e sincopando il ritmo delle parole si lasciò andare ad una vera e proprio invettiva contro il gruppetto di passanti che intanto si era adunato intorno al nostro tavolo e che certo per ragioni di lingua si sentivano indicati a dito ma non capivano cosa Amelia stesse cercando di dire loro.Intuimmo che qualcosa non andava e decidemmo di tornare a casa con il pretesto che era arrivata l’ora di pranzo ma in realtà volevamo capire cosa stesse succedendo. Dopo pranzo prendemmo la macchina e andammo a fare la nostra prima gita nei dintorni, facendo una bella sosta in cima ad un altopiano. Ameliaaveva ritrovato se stessa: il luogo era magnifico, un cielo azzurro intenso ed una luce solare abbagliante, un’aria trasparente appena appena fredda e prati di un verde intensissimo con fiori multicolori. Amelia si inerpicava di sasso in ssso per cercare di salire più in alto e ogni tanto si fermava per guardare il panoramaintorno, indossava il suo cappello di paglia e nelle soste se lo toglieva, per far prendere aria alla testa e ravviarsi i capelli, era molto attenta al suo aspetto. Ci raccontava che lassù, su quegli altipiani spagnoli, si era svolta la guerra civile, a cui avevano partecipato gli amici dei suoi genitori, che quell’evento, assiemead altri, avevano sconvolto la sua infanzia e la sua famiglia… forse erano stati proprio là…La sera cenammo in casa, sulla veranda, sotto in cielo pulsante di stelle.Osservammo le stelle a lungo quella sera, dopo cena, Amelia aveva indossato un giubbotto di pelle di cui andava orgogliosa, era stato di Gregory Corso e glielo aveva regalato. Fu proprio parlando delle stelle che Amelia ci fece osservare che non tutte lo erano, alcune erano satelliti, bene, poteva essere. Ma lei continuavaa parlare e ad approfondire il discorso, dicendo che era assai probabile che in quel momento fossimo proprio spiati da un satellite. Si avvertina di nuovo un’aria strana in Amelia, sempre quell’effetto di mancaza di libertà o di non poter godere appieno di qualche bel momento rilassate.Ciò evocava in noi la sua solitidine… lei era come sulle spine, come se non potesse dire tutto, o niente.Di mattina Amelia si alzava molto presto e alle sette circa era già in cucina ad armeggiare per farsi un caffè allora io che la sentivo mi affrettavo per raggiungerla, volendo prepararlo per lei e per me. Sapevo che lepiaceva bere numerosi caffè e le piaceva anche fumare nel frattempo parecchie sigarette. Indossava sempre la stessa vestaglia celeste di cotone sulla camicia da notte, si vestiva dopo, verso le nove. E dalle sette alle nove ascoltare Amelia parlare era una cosa eccezionale, dopo aver acceso la prima di tante sigaretteiniziava, come una vela che prende il largo dietro la spinta di un vento dolce, a parlare della poesia, dell’arte, su un tema iniziale che le si presentava alla mente: poesia e verità, quando una poesia funziona e quando no, come viaggia l’ispirazione, i poeti che preferiva e perché, quelli che mistificavano e come, quelli che avevano successo ma che per lei non erano niente. Era molto colta, parlava della scrittura con una familiarità che svelava invece una grande competenza, l’abilità dell’artigiano che prende in mano un pezzo, se lo rigira qualche minuto tra le mani e sa dirti anche l’istante in cui è nato. Il suo approccio agli autori e ai testi era libero, artistico, non si sorreggeva ad alcuna autorità esterna tranne che a questa sua sicurezza “artigianale” e quando squadrava il giudizio era rassicurante come un geometra che dà un’occhiata a un terreno e ti dice come ti conviene costruire, sapeva montare e smontare qualunque pezzo per farti vedere i punti deboli e i punti forti di un testo, lo fece anche con i nostri.Qundo capii quanto fossero piacevoli e preziose quelle due ore “di lezione” di poesia tenute di mattina presto incitai trafelata a venire anche Bocci e Tobia e poter godere di quei gioielli che Amelia costruiva la per là con le sue mani, che disegnavano ampi cerchi nell’aria, tra caffè sorseggiati e volute di fumo azzurrino, come i suoi occhi, come la sua vestaglia.Una bella mattina decidemmo di andare a visitare l’Alahambra, il famoso e meraviglioso palazzo, a Granada. Amelia era tranquilla, non si lasciava andare a quella gioia da vacanza, reazione normale in chi fa un lavoro ripetitivo tutto l’anno. Essere in libertà era per lei una condizione naturale dell’esistenza, si vaall’Alahamrba, con l’aria di chi dice sì, saliamo pure su quella piramide egizia, perché no, ci si rendeva conto, standole accanto, che avremmo potuto essere in Scozia, per lei dall’aria seria e birichina un tempo, sarebbe stata la stessa cosa, l’importante era “esserci”, in un luogo e in un tempo.Parcheggiammo a metà mattina sotto l’ombra folta di un grande viale alberato che conduceva all’ingresso del Palazzo. Amelia camminava speditamente, con le lunghe braccia che scendevano eleganti a ritmare il passo, era una camminatrice, quella mattina parlò più a lungo del solito con Angelo Tobia, di cui aveva lettole poesie che le erano piaciute molto. Aveva preso appunti a matita che aveva puntualmente scritto sui fogli, diceva che il ritmo naturale di quel modo di fare poesia era paragonabile alle onde del mare, che rifluivano sulla spiaggia per poi ritirarsi indietro, e poi subito srotolarsi di nuovo a riva. La guardavo da dietro, accompagnava questa conversazione con ampi gesti delle braccia, scoppiando all’improvviso in una risata “a denti stretti” con espressioni della bocca che erano parte integrante del commento.Ma una volta entrati nel Palazzo sul volto di Amelia si dipinse un’espressione di pacata meraviglia, guardando i mosaici colorati, le fontane zampillanti, i giardini, gli uccelli, era finalmente nel suo ambiente, la “Bellezza”, e ciò conferiva alla sua persona una sorta di completamento estetico da cui lei riprendeva subitole distanze per ritrarsi nel suo “Io”, il vero suo mondo. La sera restammo a cena a Granada, dove mangiammo con gusto la ”paella” e quando tornammo a Capilleira eravamo così stanchi che bastò un saluto a consegnarci nelle braccia di Morfeo.Era trascorsa così la metà della vacanza, una settimana circa, e una mattina all’ora di pranzo, mentre ciascuno di noi preparava qualcosa, mansioni che si svolgono in cucina, Amelia cominciò a polemizzare con Ezio Bocci che in quel momento stava grattuggiando il formaggio per gli spaghetti, in jeans e a torso nudo, quaranta gradi ed eravamo in casa all’ombra!La polemica di Amelia non era giustificata, lo accusava di ridere troppo, io e Tobia ci divertivamo, a Ezio piace molto scherzare, però, quando Amelia cominciò ad offenderlo capimmo che c’era qualcosa di strano e di diverso, Ezio non sapeva più come difendersi e cercammo di distrarre Amelia con molti tentativi dialettici: non ci fu niente da fare, quel giorno non mangiammo e ci traferimmo in salotto per continuare pacatamente quella sorta di duello verbale iniziato casualmente in cucina.Eravamo stupidamente fiduciosi che, seduti tranquilli ognuno nella propria poltrona, si sarebbe usciti da quell’intrico emotivo-filosofico-esotico scoppiato all’improvviso come un bubbone ma le cose non andarono così. Amelia aveva già dimenticato Ezio Bocci e non ci guardava più in faccia mentre parlava ma era come se parlasse a un nostro doppio seduto accanto a ciascuno di noi, come se nella stanza fossimo in otto e non quattro, come ci fossero degli stranieri, apostrofava questi invisibili ospiti chiamandoli con i loro nomi e titoli tedeschi, perlopiù cariche militari, si configurò intorno a noi, pian piano che Amelia lo costruiva con le parole, uno scenario paragonabile a un tribunale di guerra, un generale, un capitano e un barone tedeschi, davanti ai quali lei si difendeva accusandoli di diversi reati, con la magia delle parole Amelia stava mettendo in scena per noi un meraviglioso dramma teatrale di cui lei era al tempo stesso ideatrice, regista e attrice, noi tre il suo pubblico. Le sue battute, gli sguardi feroci e intensi che rivolgeva agli invisibili interlocutori erano per noi fonte di meraviglia, perché non eravamo affatto in teatro, avremmo voluto fermarla ma quasi la temevamo o avevamo paura di fare peggio, fino a che mi imposi di bloccarla dicendole a bruciapelo cos’era che non andava e altrettanto rapidamente, dimostrando quindi di non essere fuori coscienza, mi rispose che aveva finito le scorte di una medicina che prendeva regolarmente più volte al giorno e che dovevano procurarla al più presto, non aveva voluto dircelo prima per non dare fastidio. Ci facemmo dire il nome del farmaco e mentre io restai in casa con lei, Ezio e Angelo partirono in fretta e furia alla ricerca del corrispondente farmaco italiano in Spagna, operazione che si rivelò lunga e macchinosa, senza ricetta, senza il paziente, tornarono che era notte, con il prezioso farmaco nelle mani.Durante il pomeriggio in cui io e Amelia restammo sole, lei volle parlare sempre, si trattò di un lungo monologo dotato di senso, non legato alla realtà, di cui a un certo punto mi sfuggì qualunque significato, ero preoccupata invece dello sforzo fisico che stava compiendo e temevo per la sua salute fisica, contavo i minuti per l’arrivo della medicina, cercavo di distrarla con domande casuali, anche stupide e banali ma non mi scoltava nemmeno. Di quel preoccupante pomeriggio ricordo l’immagine di Amelia che, uscita in strada, una stretta strada grigia tra due file di case bianchissime tagliate in alto da una striscia di cielo azzurro, spazzava in terra con la scopa sotto lo sguardo incuriosito di qualche vecchietta che passava avvolta in uno scialle nero e di una madre che richiamò un bambino trascinandolo in casa. Fu in quell’istante che arrivarono Angelo e Ezio con le pasticche. Amelia capì a un cenno la situazione, salutò frettolosamente e presesubito con un bicchiere d’acqua le pillole, con grande lucidità aggiunse che si sarebbe ritirata in camera nel letto e che entro un’ora sarebbe stata benissimo, non dovevamo più preoccuparci.Così fu.Quando, all’ora di cena, Amelia ritornò nel soggiorno, calma e sorridente, si scusò profondamente con noi per la leggerezza commessa, quella cioè di aver dimenticato le sue medicine e ci ringraziò moltissimo per quello che avevamo fatto per lei. Mi chiese di aiutarla a mettere a posto la sua stanza, che trovai letteralmete a soqquadro. Ci rendemmo conto, nell’ora che Amelia trascorse a riposarsi, che il viaggio era finito.La fine di un viaggio, di quel viaggio, era le fine di un equilibrio, seppur instabile e precario, che aveva retto l’ordine delle cose: le cose naturali della vita, il cibo, il sonno, i paesaggi sconosciuti e non previsti, la bellezza di un cielo notturno fra quelle montagne disabitate e silenziose, un silenzio rotto a tratti dal canto di un gallo, la sera dai grilli, e dal raglio di qualche asino. Ma fatto anche di cose straordinarie, le due ore di mattina al “caffè letterario” di Amelia, le sue osservazioni geniali sparse qua e là quando meno te l’aspettavi e le sue eccitazioni improvvise non condivisibili fatte di meraviglia e tristezza insieme, la sua andatura fragile e testarda in quell’intrico di stradine spagnole.Valutammo che la salute di Amelia, il suo stesso bene, non consentiva di stare di più e decidemmo di ripartire per Roma. Quando lo comunicammo ad Amelia ne fu leggermente contrariata, non sapeva spiegarsi bene le ragioni di questo “anticipo del rientro”, come lo definì. Le spiegammo che in fondo si trattava soltanto di tre giorni di anticipo e che eravamo preoccupati perché forse si era stancata troppo. Obiettò che avremmo dovuto fare i bagagli, pulire tutta la casa per lasciarla come la avevamo trovata e che secondo lei, essendo ormai le dieci di sera, non ce l’avremmo fatta a ripartire l’indomani mattina alle otto. Accettai lasfida di Amelia e ci mettemmo all’opera, con tutto che eravamo stanchi del “pomeriggio dei generali” e del resto, all’una di notte era tutto pronto e ce ne andammo a dormire con le sveglie pronte a destarci. Restava soltanto di caricare le valige nel bagagliaio, cosa che avremmo fatto dopo colazione.La mattina dopo, appena svegli, non trovammo Amelia in casa. I suoi bagagli però erano in perfetto ordine davanti alla porta della sua stanza. Uscii di casa e mi recai al bar della piazzetta, e la vidi, in gran forma, sedeva su un trespolo davanti al bancone, sorridente, con la prima colazione già consumata e mi disse che ce l’avevo fatta - tu - mi disse - sei brava nei rush finali, anche nelle poesie che scrivi è così. Mi fece piacere, mi sembrò che potesse essere vero per il fatto che me lo aveva detto lei. Il viaggio di ritorno fu fulminante.Io guidai la macchina per le prime tre ore nel cuore del giorno, percorremmo a centottanta chilometri all’ora la costa spagnola di Alicante, un golfo ampio, un morso di polenta bollente, sotto un sole accecante e un caldo torrido reso più ridicolo dagli sbuffi di vento caldo che ci rovistavano teste e capelli, da mezzogiorno alle tre del pomeriggio non una parola fu scambiata in macchina. Fu una telecinesi, un atto di telepatia, un muoversi fuori dello spazio e del tempo, ancora ho negli occhi l’azzurro intenso di quel mare in cui non potemmo bagnarci, quell’orlo bianco sulla riva a cui non potemmo dissetarci, quell’azzurro del cielo in piena luce così accecante da preferirvi le tenebre, l’irrompere di un sogno in piena veglia.Alle quattro pranzammo lungo la strada in un posto fresco e discreto, Amelia stava benissimo e continuava a chiederci il perché dell’improvvisa partenza, noi le ripetevamo le stesse cose, che eravamo preoccupati per la sua salute e lei lo accettò. Ma trovammo il modo di divertirla ancora. Prima che facesse notte,infatti, lasciata l’autostrada, percorremmo strade di campagna, più interne e verdeggianti, e scorgemmo un angolo di paradiso, in un boschetto un fiume basso, che scorreva tra radure fresche e lussureggianti, un’acqua limpida e trasparente da cui si vedevamo i sassi bianchi e tondeggianti, non resistemmo all’invito implicito del tutto e entrammo, piedi nudi, calzoni arrotolati e scarpe in mano, nella gelida acqua. Fu un vero miracolo: tutto il caldo assorbito della giornata in macchina si scaricò nell’acqua e dai piedi si trasferì in tutto il corpo una rapida allegria fatta di risatelle e gridolini vari, ci tirammo l’acqua addosso l’un l’altro tanto che alla fine Amelia aveva capelli e vestiti completamente bagnati. Ci cambiammo in un posto di transito per turisti e al tramonto ci trovammo nel Sud della Francia, strade larghe e alberate di platani, prati a perdita d’occhio punteggiati dai covoni di grano, si era in agosto, e Amelia disse “guarda, la luce di Van Gogh!”.Quella volta la spuntai, scelsi io l’albergo dove fermarci, andai a occhio, vidi quella bella casina con giardino dalle tende rosse a pallini bianchi e dal giadino ricco di fiori e colorato, fui fortunata, all’interno era grazioso, con tovaglie a scacchi sui tavoli e tutte le caratteristiche che definiscono un luogo “tipicamente” francese”.Amelia, che godeva molto della buona cena e del senso dell’essere accudita, era tranquilla, con le sue pillole regolari poi era quasi euforica. All’indomani ripartimmo e in un soffio eravamo sulla Costa Azzurra, di nuovo. Quella sera, alle otto, eravamo sotto casa di Amelia, in via del Corallo. Tutto era andato bene, un viaggio di ritorno limpido, senza ostacoli o imprevisti, sani e salvi come suol dirsi.Fu magia? Ma sì!Ciascuno dormì quella notte nel suo letto, a ciascuno furono scaricati i bagagli sotto il portone, secondo l’ordine assegnato dall’esistenza.La mattina dopo, presto, fu Ezio a ricevere la prima telefonata di Amelia, diceva che svegliandosi ci aveva cercato in giro per la casa e, non avendoci trovato, aveva anche aperto un baule, pensando che per farle uno scherzo ci eravamo nascosti là dentro. Risero al telefono, promettendosi reciprocamente una seratatutti insieme per celebrare il ritorno. E ci fu.Varie vicende della vita separarono poi le nostre amicizie ma rivedemmo Amelia in varie occasioni: ci invitò a vedere la sua “Libellula” rappresentata in teatro, una sera la invitammo a cena in un ristorante indiano…poi ci perdemmo di vista.Passarono alcuni anni, e un bel giorno Ezio Bocci passando nei pressi di via del Corallo a Roma, disse a sua moglie Sylvie che proprio là, a pochi metri, abitava Amelia Rosselli, la poetessa con cui aveva fatto quel viaggio in Spagna tante volte raccontatole.Tornati a casa, dal telegiornale della sera appresero insieme la notizia che nel pomeriggio, incredibilmente quasi nello stesso momento in cui si trovavano a passare da quelle parti, la grande poetessa Amelia Rosselli aveva trovato la fine in un cieco volo dalla sua casa al cortile.Ma questa è già storia.


di Danda Tavani (2006) e Ezio Bocci (foto)

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