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sabato 22 agosto 2009

1982 Rosselli e la biografia di Calogero [1]

01 - A Roma alla Pietra Serpentina di via Galvani Amelia presentò Lorenzo Calogero per i readings di Quattro Eccezioni in primavera 1982. Per quell'incontro preparò una sua biografia ed una nota su Calogero che rivela come, all'inizio degli anni ottanta, Amelia Rosselli si sentisse ancora presa nella sperimentazione e isolata, anche se la stagione delle letture pubbliche la impegnava a fondo e le rendeva merito con una notoreità nuova. Rimane di quell'evento una
registrazione con sottofondi conviviali (la Pietra era una trattoria di Testaccio) che mostra ancora una volta il suo impeccabile rigore di studiosa.




I.T.C."G. Pezzullo" CosenzaLORENZO CALOGERO POETA ERMETICO di Vincenzo Napolillo
Lorenzo Calogero (Melicuccà, 1910-1961), di famiglia benestante, terzo di sei fratelli, si laureò in medicina a Siena nel 1937. Nell’anno successivo conseguì a Siena l’abilitazione all’esercizio della professione. Svolse l’incarico di medico ad interim nelle province di Catanzaro e Reggio Calabria. Fece un primo tentativo di suicidio puntandosi la rivoltella al cuore. Fu salvo per miracolo. Trovò una fidanzata, di nome Graziella, studentessa di Reggio Calabria. Vincitore del concorso di medico condotto ad interim a Campiglia d’Orci (Siena), fu abbandonato dai clienti e dimissionato. Credette di avere un tumore o di avere contratto la tubercolosi, in realtà soffriva di malattia nervosa, acuita dalla morte della madre, e di disturbi polmonari. Nel 1960, incontrò a Roma il critico irpino Giuseppe Tedeschi, che lo fece ricoverare al Policlinico; ma se ne fuggì dopo due giorni di degenza. Morì suicida, nel paese natale, il 22 marzo 1961. Il suo cadavere fu scoperto tre giorni dopo.

Il poeta di Melicuccà è ultimo e strenuo rappresentante "dell’Arcadia ermetica italiana" (Alberto Frattini). Ha portato, con molto pregio, nonostante gli esiti tardivi, l’ermetismo europeo nell’area retorica e carica di problemi della provincia, interpretando alla rovescia il saggio di Carlo Bo, Letteratura come vita, vale a dire applicando l’assunto di morte alla letteratura. Lorenzo Calogero fu fortemente attratto alla poesia romantica tedesca: dalle visioni fascinose del paesaggio ellenico e dalla rete di simboli, spesso oscuri e misteriosi, di Friedric Holderlin; dall’avventura mistica di Novalis; dalle fiabe raccolte in "Phantasus" da Johann Ludwig Tieck. Nella sua poesia convengono anche la complessa e fluttuante materia psicologica e il senso di magia e mistero delle "Liriche ballate" dell’inglese Samuel Taylor Coleridge e le letture dei francesi: Arthur Rimbaud, Paul Verlaine, Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé. Né si sottrae ai procedimenti orfici ed evocativi di Dino Campana, alle influenze di Papini, Betocchi, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Sinisgalli, Sereni. Mescolò ibridamente questo bagaglio culturale con il simbolismo, il surrealismo, l’ermetismo. Considerò la parola ermetica, allusiva, analogica, imprevedibile, come "particella di vita". Impervio, però, fu il suo cammino nell’attività poetica, che fu un accavallarsi illogico di immagini, di ambigue evocazioni, di inquietudine spirituale, di disordinate visioni, di reiterate espressioni e giochi verbali, di sogni "infetti", di manie di persecuzione, di cose "perverse", di stati psichici di assoluto isolamento, strazianti, malinconici e continuamente mutevoli:
L’allodola
è fuggita dall’arco del suo cielo.
Nel silenzio, nello squallore
una vita squallida è toccata.
Guarda! Una linea scende mesta
dai monti prona: mista ad una lapide
è sognata.
Comincia con Poco suono (Milano, Cantauro, 1936) la sua disperata dedizione alla poesia. Nel versi della raccolta Parole del tempo (1933-35), pubblicata nel 1956, con prefazione di Leonardo Sinisgalli, continua a nutrisi di sogni e immagini arabescate.

Nelle successive opere, Ma questo; Come in dittici; Sogno più non ricordo, si scorge in lui la perdita, anche per l’aggravarsi delle condizioni di salute fisica e mentale, del controllo sui sentimenti: egli brancola nelle "tenebre slogate", in cui si ravvisa l’oscurità della vita, lasciandosi trascinare dalla rassegnazione sul precipizio o all’accettazione della morte "come destino dell’essere".

Lorenzo Calogero, immerso nella più disperata condizione di solitudine, spinge oltre il limite il suo smarrimento, i suoi ricordi dolorosi, la sua prostrazione, la sua allucinante rinuncia e, raccogliendo il grido geremiaco, implora la morte "a piene mani".

Nella casa di cura scrisse 50 frammenti, raccolti da Roberto Lerici in Quaderni di Villa Nuccia, che si connettono a una sempre più drammatica presa di coscienza della crisi totale:
O questa è preghiera
o una presaga bufera.
Manca del tutto la facoltà d’intessere un più umano sistema di rapporti con il mondo esterno. Pertanto la poesia di Calogero, sgombra da una trama logica o da substrato razionale, si consegna per sempre all’ansia di autodistruzione e di morte.
Nel silenzio si combatte ogni fatica
perigliosa all’anima inumana.
Un soffio di vento mi affatica
col potere di una forza di fiumana.
Mentre tacito scrivo e penso e medito
e guardo nell’anima mia che sente
una potenza d’abisso, un canto inedito
come sibilo tumultuosamente,
vedo nel vuoto pallidi sfilare
ogni tormento, ogni idea repressa
e misuro la gioia inespressa
che tutto mi fa pallido vibrare.
Penso e medito come una volta
lontanissima nei tempi sepolti
piani scoscesi pieni di molta
tristezza sui chini pallidi volti.
I cieli aggiornavano nella luce
mattutina su piani sconvolti
ed era come se un viso torbido
e truce risplendesse come ricordi sepolti.
Nell’infinità triste del ricordo
splendevano verità ignote.
Un dolce tacito accordo
insinuava malinconie e note.
I pallidi cieli si copersero a un tratto
come un incubo sotterraneo
spaventoso ed il mio viso disfatto
vide il mondo diradarsi subitaneo.
La donna da lui tante volte desiderata e invocata rivela alla fine un volto e un nome inconfondibili. Cesare pavese la riconobbe e la guardò negli occhi:
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo.
Sono versi coevi alla nota del suo diario: Il mestiere di vivere: "Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla".

Lorenzo Calogero vide spesso quella donna, da dietro la fredda vetrata del manicomio, come ossessionante figura: da decifrare, da portare nell’alcova, da possedere:
La morte
oh sì
la morte m’innamora
e la vorrei condurre a quel sito
in cui ella come amata amante
mi ama ancora.
Dopo di ciò, giunge l’infinito silenzio. In Come in dittici, i versi si radicano nel vuoto. Silenzio, vuoto, nulla: ecco la miscela che precipitò Lorenzo Giovanni Antonio Calogero al suicidio.

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