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lunedì 1 novembre 2010

Amelia Rosselli, Variazioni Belliche

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Amelia Rosselli, Variazioni Belliche
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Amelia Rosselli ripercorre alcuni momenti essenziali della sua crescita artistica, traendo spunto dall'imminente pubblicazione di un' antologia delle sue opere curata da Spagnoletti,L’Antologia poetica - arricchita dalla raccolta dei Primi scritti (1952-63); antologia necessaria a causa dell'irreperibilità delle opere della Rosselli, alcune delle quali edite soltanto su rivista.

Il discorso è incentrato sulle Variazioni belliche, volume assemblato dalla poetessa a 34 anni, che consta di tre parti, ognuna caratterizzata da un diverso approccio alla metrica elaborata nel corso degli anni, e sfocia nel saggio finale Spazi Metrici - voluto fortemente da Pier Paolo Pasolini - in cui questa stessa evoluzione viene esplicata a scopo divulgativo.

Amelia Rosselli parla inoltre del suo rapporto con la composizione e lo studio della musica, traendo paradigmatiche conclusioni sul ruolo e le influenze di quest'ultima nel lavoro artistico di molti poeti (Dante, Pasternak, Montale).

Esperienza, ricordo e fantasia si fondono, si alternano, restituendo un'idea di scrittura come necessità, un'idea di poesia come espressione di libertà attinta a piene mani dal pozzo inesauribile della propria esperienza umana

Musica e creazione poetica

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Amelia Rosselli e il rapporto fra Musica e creazione poetica
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Amelia Rosselli parla del suo rapporto con la musica, degli studi di composizione, durati dai 17 ai 34 anni, affermando che c'è in effetti un rapporto molto forte fra musica e creazione poetica, fra ritmo linguistico e sensibilità musicale.

Scopriamo dunque che molte delle poesie contenute nella prima parte di Variazioni Belliche sono ispirate direttamente da notturni e preludi di Chopin e Bach, partorite sullo stesso sgabello, a singhiozzi, in una spola continua fra pianoforte e tavolino

mercoledì 20 ottobre 2010

Sull'autobus non si riesce a fare la "e", si pasticcia.


ALARE
(Gli ultimi giorni di Amelia Rosselli)

Gettarsi dalla finestra è l'empito non volgare
non volgere nulla perché di bianco c'è solo gli occhi
di là di su di giù dei capitelli traversi
pei grandi palazzi rossi dell'amor-Roma
che sorgono come mazzi di fiori irti.

Per chi non capendo cade di senso l'acqua scorrevole
via via assorbita nel suo rigenere peccaminoso:
ma cosa più sbagliava delle fontane di acciaio?
Cosa più faceva da tomba e vita insieme se non il cunicolo
quadrangolare delle mie catacombe aperte?

Sull'autobus non si riesce a fare la "e", si pasticcia.

martedì 9 marzo 2010

il lapsus

Uno dei casi più clamorosi del connettivo linguistico di Amelia Rosselli è il lapsus. Ora finto, ora vero: ma quando è finto, probabilmente lo è nel senso che, formatosi spontaneamente, viene subito accettato, adottato, fissato dall'autrice sotto la specie estetica di una « invenzione che si fa da sé ». E così inserito nella serie di borchie, di cui questa lingua - nata come fuori dal cervello, quasi proiezione fisica di un involucro spirituale razionalmente inesprimibile - ha bisogno di costellarsi, per presentarsi come prodotto culturale riconoscibile, leggibile.
In realtà questa lingua - ripeto - è dominata da qualcosa di meccanico: emulsione che prende forma per suo conto, imposseduta, come si ha l'impressione che succeda per gli esperimenti di laboratorio più terribili, tumori, scoppi atomici, dominati solo scientificamente, ma non nei sintomi della terribilità, in quel loro accadere ormai oggettivo. Sicché il magma - la terribiIità - è fissato in forme strofiche tanto più chiuse e assolute quanto più arbitrarie. I lapsus - è strano a dire - sono in fondo l'unico fatto che rende questa lingua storicamente o almeno correntemente determinata. L'unico fatto che sia in qualche modo in comune, - a un'analisi ragionevole, - coi grandi testi che presuppone (si noti, letti nelle loro lingue, nel semplice corso scolastico e famigliare d'istruzione). I finti lapsus sono una caratteristica linguistica dei poeti linguisti (categoria, però, a cui la Rosselli non è riducibile) e sono, insieme, uno degli elementi più correnti della poesia surrealistica (ma la Rosselli non ha con essa parentele). Voglio dire che certamente la Rosselli sa di fare esperimenti linguistici scoperti, in un laboratorio pubblico. E che anzi la pubblicità di tali esperimenti è un dato formale della sua poesia. La Rosselli sa inoltre, certo, le analogie dei suoi nessi con quelli dei surrealisti, dei mistici iteranti, alliteranti, etimologici, anaforici, facitori di reminders. E che esistono parentele con Pound. Quel Pound che nelle trascrizioni milanesi e così letterario e provinciale.
Tuttavia, io direi che più che di specie culturale (e lo sono) i lapsus della Rosselli, sono di specie ideologica.
Il mondo - attraverso queste borchie - che assicurano storicità, continuità e stabilità a dei testi che sono in realtà dei soffi spirituali direi epilettici, delle ideografie in cui un'anima si proietta alIa lettera, e non senza letteratura - il mondo si presenta come un mondo tipicamente liberale e irrazionale.
La critica del poeta a se stesso - in un simile rapporto col reale - avviene si può dire quasi unicamente attraverso i lapsus: cioe attraverso l'affabulazione... focomelica... delle proprie figliazioni istituzionali, e quindi per obbligo sociale e consacrazione, sane.
La Rosselli pesta la propria lingua, dunque, non con la violenza di un' altra lingua rivale - « altra» ideologicamente e storicamente - ma con la violenza di quella stessa lingua alienata da sé attraverso un processo di disintegrazione (musicale, direbbe l'autrice) che, in realtà, la ripresenta abnorme sì, ma identica e se stessa.
I lapsus sotto forma di errore lessicale e grammaticale, come accade qui, lasciano la parola quella che è: semplicemente la rivelano sotto un aspetto orrendo, di oggettivita putrefatta o ridicola. L'agonia o la morte non mutano il mondo. Tutto lo « spirito » della società liberale è infatti fondato sui lapsus come deformazione linguistica. Il comico del periodo della letteratura del capitalismo creatore, della grande borghesia - è fondato su una pura e semplice deformazione delI'istituzione: il che esclude ogni possibilità reale di riforma o di rivoluzione linguistica (e istituzionale). Direi anzi che è più resistente ai corrosivi di una ideologia rivoluzionaria una parola deforme che una parola normale. La deformità comporta una più integrale capacita di resistenza, se crea intorno a sé una cerchia insuperabile di morte e di sacralità. Tutto lo spirito liberale vive di facezie che deridono le istituzioni senza intaccarle, accontentandosi semplicemente di inoculare in esse la malattia del mistero, in una inconscia reificazione. (Ho sotto gli occhi un libra che ha successo in Francia, La foire de cancres, errori di scolari somari: « Chi sono i profeti? Gli abitanti della profezia, piccola nazione molto industriosa», « ... faceva morire i nemici in raffinerie di crudeltà ». E potrei anche citare tutti i motti di spirito attribuiti per la maggior parte a un centro di produzione collertivo, il mondo gergale delIa élite laica di via Veneto).
Il lapsus dà una profonda liberazione: consente, alla buonora, di liberarsi del peso istituzionale - gravante su tutta la lunghezza delI'anima - e, nel tempo stesso, di rispettarlo. Non c'e motto in forma di lapsus che sia tanto cinico, feroce, ironico, sprezzante che non includa un sostanziale rispetto per la lingua e la istituzione d'uso. E, se mai ve ne fu, la tipica negatività che afferma. Il fondo del libro della Rosselli - sono riuscito a dirlo malgrado il suo totale rifiuto, la sua pazzesca coerenza che lo salda da tutte le parti come un molle fortilizio - è la grande cultura liberale europea del Novecento. E lo è con uno splendore del tutto eccezionale. Direi che non mi sono mai imbattuto, in questi anni, in un prodotto del genere, così potentemente amorfo, così oggettivamente superbo.
Il Mito dell'Irrazionalità (mettiamoci le maiuscole), ha, con le poesie dell a Rosselli, negli anni sessanta, il suo prodotto migliore: lussureggiante oasi fiorita con la stupefacente e casuale violenza del dato di fatto, ai margini del dominio. E il revival avanguardistico - così tetra presso gli eterni apprendisti di Milano e Torino - ha trovato in questa specie di apolide dalle grandi tradizioni famigliari di Cosmpopolis, un terreno dove esplodere con la funesta e meravigliosa fecondità dei funghi atomici nell'atto in cui divengono forme, ecc. ecc. Oltre i limiti del risguardo non vado. E aggiungo che il tema dei lapsus è un piccolo tema secondario e irrisorio rispetto i grandi temi dell a Nevrosi e del Mistero che percorrono il corpo di queste poesie: è solo un filo che ho seguito per poter produrre qualche effato su questo splendido testo che si propone come ineffando.
Amella RosselIi, figlla di Carlo Rosselli, ha trentatre anni. Ha studiato in Francia, Inghilterra, Stati Uniti: dal 1950 vive aRoma. Svolge professione, come teorica e compositrice, di musicista. Ha pubblicato un racconto su « Botteghe oscure » e saggi su « Diapason» e « CiviItà delle macchine ». Scrive, indifferentemente, in itaIiano, inglese e francese.

Avete mai visto Amelia?

Tu, lettore distratto, che sfogli in fretta e che non leggi poesie, non correre oltre, se puoi. Fermati. Non su questa nota improvvisata e accessoria, ma sulla poesia pubblicata in questa pagina. Rileggila con calma almeno tre volte. Non l'avrei costretta a uscire dallibro in cui stava solo per incontrare sguardi di noncuranza. Sulle pagine di un giornale, una poesia ci sta sempre come un ospite in imbarazzo o come un corpo estraneo. Incoraggiarla a parlare spetta anche a te. Chi legge (se legge) non e meno «creativo» di chi scrive. Anche di più.
Qualcuno (Franco Brioschi, recentemente) ha teorizzato che un testa poetico si distingue soprattutto perche non è un testa di consumo ma un testa di ri-uso, non una merce usa-e-getta, ma un insieme di parole organizzate in forma stabile: e che, rileggendole, invece di usurarsi e perdere valore, lo acquistano. Aggiungerei che ogni scritto critico, dalla breve recensione alla storia letteraria, dovrebbe essere come un dito che indica la luna. Anche se molti guardano il dito, invece di guardare la luna. La luna che il mio dito indica questa volta è una poesia di Amelia Rosselli. Fu pubblicata in Variazioni belliche nel 1964 (Garzanti). La scrittrice aveva poco piu di trent'anni, era quello il suo primo Iibro. Ma l'anno precedente sui numero 6 del Menabò, la rivista di Elio Vittorini e Italo Calvino, una scelta delle sue poesie era stata presentata da Pier Paolo Pasolini, che parlava del lapsus come di uno degli aspetti piu «clamorosi del connettivo linguistico di Amelia Rosselli ».
L'osservazione pasoliniana è rimasta a lungo un punto fermo dell a critica successiva (non molto prodiga con la Rosselli). Il rischio era pero che per lapsus si intendesse qualcosa di tanto evidente quanto di riduttivo. Nella poesia che ho scelto se ne trova uno solo, al secondo verso: «Su della sua passione». E come un accumularsi, un accavallarsi di determinazioni e specificazioni. Una fusione fra «il cadavere... dell a sua passione» e «fIotta su (la) sua passione». L'espressione e abbreviata, condensata, è tanto inusuale da risultare abnorme.
Irregolarità di questo tipo non sono mai un partito preso nella poesia di Amelia Rosselli. Sono gli inciampi grammaticali, le scivolate, le scorciatoie improvvise e accidentali verso quel resto di verita non detta che spesso giace nei dintorni immediati di quello che diciamo o stiamo per dire. La poesia è una specie di «grammatica dei poveri» per Amelia Rosselli, una costruzione di fortuna, un pensare e parlare in stato di necessità, e quanto viene detto è letteralmente vero e reale, anche se non sembra del tutto logico. Ma che cosa ci annunciano di vero e di reale queste righe spezzate in cui si addensano, come nuvole profetiche le parole pronunciate fra sé e sé da questa Cassandra che sa leggere i giornali?
«Contiamo infiniti cadaveri »: e che cosa abbiamo fatto se non questo, anche oggi, sentendo le notizie del giorno? «Siamo I'ultima specie umana »: noi, Occidente sviluppato, continuiamo a vivere di cannibalismo ai danni dei Paesi piu poveri e riempiamo un piccolo pianeta di armi e rifiuti. Non siamo una civiltà in crisi, siamo già il cadavere della specie a cui apparteniamo. Vogliamo a tutti i costi essere gli ultimi e che dopo non ci sia altro. Poi, alla terza riga, il verbo al presente lascia il posto a un imperfetto narrativo, che ora parla di una storia personale, di un eroismo ingannato, di una battaglia persa. Alla fine, separati da una pausa, I'invocazione all'amore e I'auto-epitaffio sono I'una accanto all'altro.
Nell'intervista che chiude I' Antologia poetica Amelia Rosselli dice: «Con le noie che avevo prima dalla Cia e ora pare anche da Cosa nostra, non riesco a vivere come vorrei ». Puo succedere questo a un poeta? Voi invece, lettrici e lettori, vi sentite al sicuro? La Cia e Cosa nostra vi lasciano in pace? Non siamo tutti nelle loro mani?


Contiamo infiniti cadaveri. Siamo I'ultima specie umana.
Siamo il cadavere che flotta putrefatto su della sua passione!
La calma non mi nutriva il sol-leone era il mio desiderio.
Il mio pia desiderio era di vincere la battaglia, il male,
la tristezza, le fandonie, I'incoscienza, la pluralità
dei mali le fandonie le incoscienze le somministrazioni
d'ogni male, d'ogni bene, d'ogni battaglia, d'ogni dovere
d'ogni fandonia: la crudelta a parte il gioco riposto attraverso
il filtro dell'incoscienza. Amore amore che cadi e giaci
supino la tua stella e la mia dimora.

Caduta sulla linea di battaglia. La bontà era un ritornello
che non mi fregava ma ero fregata da essa! La linea della
demarcazione tra poveri e ricchi.

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